Michele Alboreto, il campione della Ferrari

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Michele Alboreto, scomparso 15 anni fa in Germania, è stato uno dei nostri più grandi piloti, da tutti è ricordato soprattutto per le vittorie con la Ferrari,
Sera del 25 aprile 2001: una notizia invade i telegiornali: Michele Alboreto è morto in Germania, al volante di una Audi R8R, mentre stava effettuando delle prove sul circuito di Lausitzring. Il giorno successivo segue una serie di numeri, le sue vittorie, la storia della sua carriera, una carriera che lo ha reso famoso per essere stato l’ultimo italiano scelto, voluto da Enzo Ferrari in persona. Alboreto è stato l’ultimo che è riuscito a realizzare il sogno del pilota italiano al volante di una rossa. Enzo Ferrari non voleva italiani, non voleva ulteriori polemiche in caso di incidenti o di lutti, ma dopo tanti anni aveva voluto Alboreto, ed il milanese è stato un pilota importante nella storia della rossa. E’ arrivato in Ferrari nel 1984 e ci è restato fino al 1988, quando è morto il Drake. Se ne è andato da Maranello in silenzio, senza fare polemiche, anche se avrebbe avuto molto da recriminare, soprattutto dal punto vista tecnico e sportivo. Ma Michele Alboreto non è stato solo un campione con le vetture di Maranello, ha corso e vinto anche con le Porsche e con le Audi.
L’inizio con la F.Monza 875
Monza, un circuito che lo ha visto al debutto, nel 1976, con una CRM di F.Monza, acquistata per poche lire in società con un altro pilota, e lo ha rivisto per la sua ultima gara, invitato dalla Lamborghini, azienda del gruppo Audi, che lo ha fatto correre con la Diablo GT-R del Lamborghini Supertrophy in coppia con Luc Alphan. Michele non si risparmiato anche questa volta, l’ultima, anche se non conosceva la macchina ed ha avuto problemi di assetto per tutte le due gare, ma è riuscito a salire sul podio.

alboreto_1988_imola_MC_008_800xFinita l’avventura in F.1, durata ben 194 Gran Premi con 5 vittorie e 186,5 punti mondiali conquistati, non si è arreso. Altri l’hanno fatto, paghi e ricchi, senza più stimoli. Lui no, aveva quel sacro fuoco che distingue i veri innamorati delle piste e che credono in ciò che uno fa. Dopo la Ferrari è tornato a correre con Tyrrell, ma divergenze con gli sponsor tabaccai gli hanno sottratto la monoposto in favore di un giovane Alesì. Caparbio e coriaceo, dopo una breve parentesi con la Lola-Larrousse, si è accasato in casa Arrows, rinominata Footwork dallo sponsor di turno. Una cosa soprattutto l’attraeva di questa squadra: i futuri accordi con la Porsche che doveva realizzare un nuovo 12 cilindri per ritornare in F.1 dopo i mondiali conquistati negli anni ottanta con la Mc Laren ed il sei cilindri Tag-Turbo. Ma il V12 aspirato progettato da Hans Metzger ha presto mostrato i suoi limiti: poca potenza, grande peso e scarsa affidabilità, insomma un fiasco. Sono solo sei i gran premi del 1991 a cui prende parte Alboreto con la Footwork-Porsche, colleziona due mancate qualificazioni e quattro ritiri, imitato anche dai suoi occasionali compagni di team, Caffi e Johansson. Finita con la stagione 1994 l’avventura in F.1, dopo essere ritornato alla Minardi, Michele Alboreto ha continuato a correre in auto, cercando nuovi stimoli e soprattutto programmi ad alto livello. Una nuova avventura poco producente nel DTM con l’Alfa Romeo e poi l’America dove riscopre il gusto delle vetture a ruote coperte incrociando ancora una Ferrari, la 333Sp del team Scandia, con cui corre a Daytona e Sebring nel 1995 e 1996 dimostrando che il piede c’è ancora, come la voglia di correre, ma i risultati sono spesso una questione di programmi e di professionalità del team con cui correre.
Le Mans 1997, la vittoria
Alboreto è nuovamente pronto a cogliere l’occasione che aspettava da tempo e Reinhold Joest, che sta partendo con programma per la 24 ore di Le Mans vuole il pilota milanese, proprio per la sua grande esperienza e la voglia di correre. Il team manager tedesco rispolvera una barchetta realizzata sperimentalmente dalla Porsche per correre nelle gare di durata come Daytona o Sebring, ma poi quel programma non è stato attuato dalla casa ufficiale e la vettura è stata ceduta a Joest. In realtà la barchetta è una ex TWR-Jaguar Xjr14, quella progettata da Ross Brown che aveva vinto il titolo mondiale nel 1991, con via il tetto per adeguarla ai nuovi regolamenti e il V8 Cosworth sostituito dal V6 turbo, derivato da quello che ha corso e vinto nel mondiale con la 962 gr.C. La barchetta, ribattezzata TWR-Porsche, conserva le doti di guidabilità della sua progenitrice ed acquista l’affidabilità del V6 tedesco. Alboreto è tra i protagonisti della 24 ore di Le Mans del 1996, ma un problema meccanico costringe la sua vettura alla resa.

alboreto_1997_lemans_MC_008_600xLa rivincita per Alboreto è spostata alla edizione successiva, quella del 1997. La Porsche scende direttamente in campo con la nuova 911 GT1 decisa a conquistare la gara, con un grande impegno di uomini e mezzi. Il Team Joest corre con una sola barchetta TWR-Porsche, per Alboreto–Johansson-Kristensen, pur essendo i vincitori della passata edizione il loro box è piccolo, quasi in un angolo, dalla parte opposta delle vetture ufficiali, ma le ambizioni sono nuovamente da primato. Pochi sono disposti a scommettere nuovamente sulla barchetta privata, ma tutti si aspettano le stratosferiche GT1, sempre meno granturismo e sempre più prototipi. Joest nel 1997 investe in un equipaggio che si è rivelato la carta vincente. Michele Alboreto, Stefan Johansson e Tom Kristensen, due veloci ed esperti ed un terzo giovane e voglioso di gloria, tre moschettieri che hanno saputo sempre duellare di spada e di fioretto, a seconda delle situazioni, ma che hanno ottenuto una vittoria entrata nella storia. Alboreto, autore della pole position con un giro alla morte e subito in testa nei primi giri di gara con tutto l’esercito Porsche GT1 ufficiali e private alle spalle. Per tutta la gara è una lotta sul filo dei secondi tra le GT1 e la vettura di Joest, sempre una spina nel fianco delle bianche granturismo teutoniche. Bob Wollek, pressato dalla TWR Joest, finisce contro il rail ad Arnage, solo dopo anni verrà rivelato che si era rotto il differenziale della GT1. A meno di tre ore dalla fine ci pensa Tom Kristensen a recuperare altro svantaggio ed a portarsi ad un giro dalla Porsche ufficiale. Kelleners è costretto a forzare, si spacca il serbatoio dell’olio e la gara della 911 GT1 superstite finisce tra le fiamme, lasciando via libera alla barchetta Porsche che trionfa sulla Sarthe. Per Michele Alboreto è un grandissimo risultato, fortemente e caparbiamente voluto, il compendio di una carriera invidiabile. L’accoppiata Joest-Alboreto continua nelle seguenti stagioni, con un rapporto di reciproca fiducia e di massima collaborazione. Il primo pilota che Joest ha voluto quando ha finito il rapporto con la Porsche ed ha iniziato a collaborare ufficialmente con l’Audi nal 1999 è stato proprio il milanese.
Michele, fan di Ronnie Peterson
Il suo casco era facilmente riconoscibile: blu intenso con la striscia gialla, gli stessi colori della Scuderia Salvati, quella che lo ha lanciato, gli stessi colori di Ronnie Peterson, l’idolo della sua gioventù, un pilota che come Michele non è riuscito a conquistare l’alloro mondiale, ma il cuore di molti tifosi, per come guidava in pista, per come sapeva essere un signore delle piste, proprio come Alboreto. La determinazione e la passione sono sempre state due costanti nella sua carriera: aveva ancora tanta voglia di correre, di ottenere ancora dei risultati come la vittoria a Le Mans del 1997 e quella di Sebring del 2001, e voleva conquistare ancora un’altra vittoria sulla Sarthe, proprio con quell’Audi che lo ha tradito. Sentire parlare Alboreto, durante una intervista o una conferenza stampa, aveva un significato particolare: mai banale, sempre cercando il perché delle cose e delle situazione, a volte sarcastico nei suoi giudizi, a volte con una vena polemica, ma sempre garbata.
Michele Alboreto, anche se non ha conquistato il titolo mondiale, ed in quel lontano 1985 lo avrebbe sicuramente meritato, ha rappresentato una figura emblematica per tanti giovani, e per tanti tifosi. La grande forza di Alboreto è stata quella di essere un uomo, ancor prima che essere un pilota. Ha iniziato a correre per merito della Scuderia Salvati, la Scuderia che lo ha fatto crescere, che gli ha dato quelle opportunità per correre e diventare professionista. Michele Alboreto che si è subito rivelato un pilota veloce, corretto, professionale, un vero campione, ma anche una persona sempre disponibile con chi gli chiedeva un autografo, una fotografia, un’intervista, un semplice sorriso. Molti piloti cambiano con gli anni, con il passare delle stagioni e l’arrivo di qualche risultato, cercando di tralasciare i loro umili inizi nel mondo delle corse, Alboreto non lo ha mai fatto, ha sempre riconosciuto i suoi trascorsi e di quando ha iniziato senza un soldo, ma con tanta passione nelle vene e la voglia di fare bene.
Michele Alboreto era questo, e tanto altro. Con lui è anche finita un’epoca, nella quale i piloti iniziano a correre per merito delle scuderie sportive, arrivano in alto, non per la valigia, ma per le proprie qualità, velocistiche e professionali. Riescono a fare sognare le folle al volante di una rossa, e continuano a fare i professionisti ad alto livello per molte stagioni ancora, senza mai arrendersi. Ma soprattutto finisce anche un’epoca dove i piloti sanno essere anche uomini, non solo delle star o dei semplici robot al servizio degli sponsor, e vengono apprezzati anche e soprattutto per questo.

Massimo Campi